La grande storia dei mondiali: Italia 1934

“Zurigo, 9 ottobre 1932 Ieri si è riunito nella nuova sede della Segreteria Generale della FIFA..
di Cesare Gigli

Capitolo 1

“Zurigo, 9 ottobre 1932
Ieri si è riunito nella nuova sede della Segreteria Generale della FIFA il Comitato esecutivo per l’esame di un importante ordine del giorno, il quale conteneva tra l’altro l’organizzazione dei Campionati mondiali e la richiesta della Germania di ripristinare il giuoco del calcio nel programma olimpionico.
Il Maestro Zanetti ha dato piene ed esaurienti spiegazioni sul progetto italiano per la disputa del campionato mondiale
All’unanimità il Comitato esecutivo della FIFA ha deciso di attribuire all’Italia la organizzazione dei Campionati calcistici del mondo per il 1934.
Da dichiarazioni fatte dal maestro Zanetti si è appreso che i Campionati si svolgeranno in primavera.
Il Comitato ha inoltre deciso di cercare la via  migliore per entrare in trattative con il CIO perché il calcio sia incluso nel programma olimpionico del 1936: ma si prevede che si incontreranno fortissime opposizioni chè come è noto il seno al comitato olimpico prevalgono i principi del più assoluto dilettantismo”

Così il 10 ottobre 1932 il Littoriale – giornale sportivo dell’epoca - dava la notizia dell’assegnazione della fase finale dei mondiali all’Italia. Già, fase finale, perché per la prima volta (e da allora per sempre) si sarebbero disputate delle partite eliminatorie per decidere le nazioni che avrebbero preso parte all’evento.
Il “Maestro Zanetti” era Giuseppe Zanetti, vice di Arpinati nella FIGC (nonché padre di Gualtiero, futuro direttore della Gazzetta dello Sport) che faceva parte di un gruppo selezionato da Mussolini ed Arpinati il cui scopo era quello di portare il Campionato del Mondo in Italia. Non avrebbe accettato fallimenti, il Duce, anche se come vedremo non sarebbe poi stato un compito arduo convincere la FIFA.
Cominciamo però dall’inizio: Rimet sapeva benissimo che la seconda edizione dei campionati doveva svolgersi in Europa, lo sgarbo (chiamiamolo così) dell’assegnazione all’Uruguay dei Campionati 1930 doveva essere riparato. Con le britanniche sempre più isolate nella loro assiomatica convinzione di essere i migliori, le uniche candidate serie furono l’Italia e la Svezia, con la prima, però, in grado di offrire logistica e stadi oggettivamente migliori (era seconda, da questo punto di vista, solo alla stessa Inghilterra). La scelta fu quindi facile. Come vedremo, la nazione scandinava fu comunque ricompensata designando un arbitro svedese per la finale.

Anche se la scelta, da parte del regime di Mussolini, fu fatta ai fini di veicolare consenso interno ed esterno al fascismo, quindi, si può dire che la scelta della FIFA e di Rimet fu comunque saggia: l’organismo mondiale del calcio aveva ormai superato i 50 affiliati, ed una nazione in grado di poter gestire un evento che oltre che sportivo cominciava a diventare mediatico, poteva dare ulteriore lustro alla manifestazione, ancora – come abbiamo visto dall’ordine del giorno della riunione – non ancora affrancata totalmente dai giochi olimpici.
Fu l’ultimo grande successo di Arpinati, ras della prima ora del fascismo e, nel suo ruolo di presidente della FIGC, creatore della serie A. L’anno dopo sarebbe caduto in disgrazia per la sua inimicizia con il neo segretario del PNF Starace e per la sua poca diplomazia verso il Duce, sempre più sordo a tutto ciò che non fosse adulazione. Il suo posto in Federazione fu preso da Giorgio Vaccaro, che aveva da poco lasciato la carica di vicepresidente della S.S. Lazio, e come vedremo uno dei maggiori artefici, soprattutto dal punto di vista finanziario, del successo della manifestazione.

Ma abbandoniamo la parte politica e gestionale, per ora, e concentriamoci sulla parte sportiva: non essendoci i problemi di spostamento che la trasferta in Sudamerica prevedeva, si decise per una formula ad eliminazione diretta, con supplementari ed eventuale ripetizione della partita il giorno dopo in caso di parità. Formula non vista bene dall’Italia che prediligeva il “round robin” (che nell’italianizzazione dei vocaboli voluta dal regime fascista, essendo da poco nata la serie A, venne rinominato, ma solo in Italia, “girone all’Italiana”) in quanto garantiva più partite e quindi più incassi. Rimet però, da sempre favorevole a questa formula, rimase della sua idea.
Le squadre iscritte al mondiale furono 32, e di queste solo 16 potevano accedere alla fase finale. La ripartizione fu chiaramente sbilanciata in favore del vecchio continente: 12 squadre (su 21 iscritte) sarebbero state europee, solo due sudamericane (continente che – ricordiamo - aveva campione e vicecampione del mondo uscenti) su 4 iscritte, una della parte nord/centroamericana (4 iscritte anche qui) ed una del gruppo Asia/Africa 83 iscritte). In Sudamerica l’Uruguay, campione del mondo, non si iscrisse alla manifestazione, rendendo così la pariglia all’Europa che aveva snobbato la “sua” coppa inviando squadre di non eccelsa levatura. E’ ad oggi l’unico caso di Campione del Mondo di calcio che non difese il titolo, e la coppa della Vittoria (che si decise di assegnare definitivamente alla squadra che per prima avrebbe vinto tre edizioni dei Campionati) tornò quindi in Europa priva dei suoi detentori. Con le defezioni anche di Paraguay e Bolivia, rimasero solo quattro squadre: Argentina, Brasile, Cile e Perù. Queste ultime due, infine, rinunciarono a giocare (erano state sorteggiate rispettivamente contro l’albiceleste ed i verdeoro), quindi le eliminatorie latino americane furono solamente teoriche.

Diverso il discorso per la parte centrale e settentrionale del nuovo continente in quanto all’inizio le squadre iscritte al torneo erano tre (per un posto solo): Haiti, Cuba e Messico. Poiché quest’ultimo aveva già partecipato all’edizione del 1930, si decise di far svolgere una prima eliminazione tra le due “neofite”, per poi far scontrare la vincente con i verdi centroamericani. Entrambe le serie di eliminazione si sarebbero giocate su tre partite. Cuba si sbarazzò di Haiti, ma fu travolta dal Messico che nelle tre partite di eliminazione rifilò 12 gol ai malcapitati caraibici. Grande fu la sorpresa quando, ormai in procinto di partire per l’Italia, la squadra messicana scoprì che, in ritardo rispetto ai tempi, anche gli USA si erano iscritti, e che quell’iscrizione era stata accettata (erano arrivati terzi quattro anni prima, e la loro presenza avrebbe dato comunque lustro alla manifestazione).  Si sarebbero giocati l’accesso alla fase finale in un “play-off” giocato in Italia, tre giorni prima dell’inizio del Mondiali veri e propri. La partita venne giocata il 24 maggio del ’34 allo stadio del PNF a Roma (dove ora sorge l’attuale stadio Flaminio) alla presenza di Mussolini, e nonostante, come si legge dalle cronache dell’epoca, i Messicani cercarono di accattivarsi le simpatie del pubblico effettuando il saluto romano alla presentazione delle squadre, non riuscirono ad evitare l’eliminazione. Gli USA, che giocavano da buoni inglesi col “sistema” puro, ebbero ragione 4-2 dei centroamericani. Era la sedicesima ed ultima nazionale a qualificarsi, oltretutto il sorteggio degli ottavi di finale era già avvenuto ed avrebbero incontrato i padroni di casa.

Interessante fu invece la vera novità di questa edizione dei mondiali: il girone Asiatico-Africano che avrebbe dato per la prima volta un posto ai mondiali ad una squadra non proveniente dalle due culle storiche del calcio: Europa ed America. Si iscrissero tre squadre: Turchia, Egitto, e la “Palestina”, che rappresentava la nazionale del territorio che sarebbe divenuto Israele e la Palestina dopo la seconda guerra mondiale. All’epoca il territorio era sotto protettorato britannico, e la Federazione locale (fondata nel 1928) era composta da club arabi, club ebrei (esisteva già il Maccabi tel Aviv) e club fatti da militari e poliziotti britannici che erano li per il protettorato. I sedici convocati furono nove britannici, sei ebrei ed un solo arabo. Quella squadra doveva comunque essere poca cosa: ritiratasi la Turchia, la qualificazione si giocò in un match di andata e ritorno con l’Egitto, che subissò di gol (7-1 al Cairo e 4-1 a Tel Aviv) i malcapitati giocatori palestinesi. L’Egitto si qualificò così per i mondiali in Italia. Curiosamente, si sarebbe qualificato di nuovo per una fase dei mondiali solo nel 1990, quando la fase finale dei mondiali si giocò… in Italia.

E veniamo alle qualificazioni europee: le 21 squadre iscritte vennero divise in otto gironi su base geografica. La stessa Italia – nazione ospitante – dovette qualificarsi (ed è fino ad ora l’unico caso di padrone di casa che non ha avuto diritto di accesso diretto alla fase finale dei mondiali). Cinque dei gironi erano formati da tre squadre, e tre da solo due. Ne uscirono qualificati La Svezia (contro l’Estonia e la Lituania), la Spagna contro il Portogallo, l’Italia contro la Grecia (che dopo il 4-0 preso a San Siro all’andata rinuncerà a giocare il ritorno), L’Ungheria e l’Austria (una delle favorite per la vittoria finale) che ebbero facilmente ragione della Bulgaria – ritiratasi a metà girone anche essa per manifesta inferiorità – la Cecoslovacchia (altra favorita) sulla Polonia, l’Olanda ed il Belgio - quest’ultimo per un solo punto nella differenza reti -  sullo “stato libero d’Irlanda”, embrione di quello che poi diventerà l’EIRE, Germania e Francia sulla cenerentola Lussemburgo (era cenerentola già da allora, perse 9-1 con i tedeschi e 6-1 con i transalpini) ed infine, Svizzera e Romania sulla Jugoslavia classificatasi quarta in Uruguay. Girone, quest’ultimo, avvincente: La Svizzera pareggiò i suoi due incontri per 2-2, a Belgrado con la Jugoslavia ed a Berna con i rumeni. Quest’incontro, però, fu poi dato vinto per 2-0 alla Svizzera perché i Rumeni schierarono un giocatore “ineleggibile”. A questo punto, a Bucarest, nella partita del 19 aprile del 1934 era per i giocatori di casa vincere, mentre agli Jugoslavi bastava il pareggio. Ed al 74’, quattro minuti dopo aver subito il pareggio, il capocannoniere Dobay fissa il risultato sul 2-1: missione compiuta e Jugoslavi sorprendentemente a casa.

Capitolo 2

Dal punto di vista logistico, coma abbiamo detto, la manifestazione fu un successo: Vaccaro mise subito le cose in chiaro: «minimo obbligo morale implicito è di preventivare un deficit finanziario» disse, ed in effetti la spesa fu faraonica: oltre 2 milioni e seicentomila lire dell’epoca. Ma ebbe ragione: il guadagno netto della manifestazione superò il milione, e la vetrina che Mussolini pretendeva fu sfruttata, dal punto di vista dell’immagine, alla perfezione: del resto, il regime fascista non era ancora diventato quell’esecrabile dittatura che comincerà ad essere percepita solo nel 1938. Le stesse cronache dell’epoca parlano di calcio e di sport in generale in maniera gioiosa, ed a parte l’obbligo di scrivere DUCE in maiuscolo brillano, tutto sommato, per obiettività (anche verso la nazionale italiana, secondo chi scrive molto più coccolata adesso). La parte operativa dell’organizzazione fu affidata a Ottorino Barassi, all’epoca segretario generale della FIGC, sopravvissuto all’epurazione di Arpinati, pur essendo stato uno dei suoi più stretti collaboratori e che riuscirà a rimanere in sella anche dopo il fascismo, e Giovanni Mauro, uno dei tre “creatori” della serie A. Anche lui riuscirà a sopravvivere alle epurazioni seguite alla caduta del fascismo ed anzi sarà tra quelli che rimetteranno in piedi il calcio italiano nell’immediato dopoguerra.

Dal punto di vista tattico, invece, si assisté per la prima volta ad uno sviluppo della classica “piramide rovesciata”. Cosa era successo? Nel 1925, per rendere il gioco più spettacolare, l’IFAB (l’ente ufficiale che emanava il regolamento del gioco) decise di modificare la regola del fuorigioco per aumentare lo spettacolo: si decise che per considerare l'attaccante "in gioco", era necessario che questi avesse  tra sé e la linea di porta non più almeno tre giocatori avversari, ma solo  due (uno dei quali era in genere il portiere) La variazione ebbe in effetti come conseguenza un aumento del numero di reti, ma non di certo della felicità degli allenatori! In Inghilterra la soluzione venne trovata quasi subito: essendo inutile tenere due difensori dietro (che non generavano più il fuorigioco), ed essendo troppo rischioso tenerne uno solo il centrale della linea mediana veniva arretrato sulla linea di difesa: era nato lo “stopper”. Per rinforzare il centrocampo, due degli attaccanti venivano arretrati: nasceva la “mezz’ala”. Il creatore di tale modulo, chiamato “sistema” o “WM” dalla forma che i calciatori disegnavano in campo, fu l’allenatore dell’Arsenal Chapman, e tutti, in Inghilterra, si affrettarono a seguirne l’esempio, tanto che giocando le squadre in maniera speculare, le marcature, dal curare la “zona” come era stato sino allora, passarono a curare l’”uomo”. Tale modulo, che favoriva i passaggi rispetto ai lanci, in quanto si generava una zona nevralgica di gioco a centrocampo, fu “esportato” in Europa da tale Jimmy Hogan, che allenò prima in Svizzera e poi in Ungheria. Fu studiato, e di base rifiutato, però dai due grandi allenatori dell’epoca: Hugo Meisl, coach del “wunderteam” Austriaco, e Vittorio Pozzo, CT Italiano dal 1929.
Meisl capì l’importanza del gioco a terra (Passing-game) anche perché aveva una squadra in grado di svilupparlo, ma decise di non arretrare il mediano, ma solo le due mezze ali. Questo creava una superiorità a centrocampo che poteva essere battuta solo a patto di essere più bravi tecnicamente, ed esclusa l’Inghilterra, questo non era nell’ordine delle cose. Quell’Austria fu formidabile: ebbe una serie di 14 risultati utili consecutivi, tra cui una vittoria sulla Scozia per 5-0. Pozzo sviluppò ancora di più il concetto: arretrò i due mediani laterali fino quasi sulla linea di difesa a protezione delle ali avversarie, e cambiò il ruolo ai due difensori: uno fisso a protezione dell’area “terzino di posizione”, ed uno in grado di dare una mano dove serviva, scevro da posizioni prefissate in campo: il “terzino volante”. Era nato il “libero”. Il mediano centrale diventava a questo punto fondamentale nel gioco: raccoglieva la palla dalla difesa e la portava, molto spesso con lunghi lanci, in attacco. Il ruolo, “centromediano”. Tale sistema di gioco verrà poi chiamato “metodo”, o a “W” sempre dalla forma che la squadra assumeva sul terreno di gioco, ed il ruolo diventerà quindi il “centromediano metodista”. Da notare che la marcatura era, con gli occhi di oggi, a “zona”, che quindi non è di certo un’invenzione moderna.

 Nonostante qualche timido tentativo di esportare il sistema, fu il metodo, nella versione di Meisl o di Pozzo, ad essere adottato in Europa negli anni ’30, tanto che solo due squadre adottarono il “WM” in questo mondiale: i malcapitati USA (di scuola prettamente britannica) e la Germania, che arrivò terza. Questo perché la superiorità a centrocampo si traduceva spesso in un’inferiorità in difesa nel momento in cui partivano i lanci lunghi. Era il gioco di rimessa che tanto piaceva al buon Gianni Brera e che secondo lui caratterizzava razzialmente (sic) la nostra genia pedatoria. Il Mondiale 1934 fu quindi soprattutto uno scontro tattico sull’applicazione del metodo (quando i calcioni lasciavano spazio al gioco del pallone).

Ma torniamo alla fase finale della manifestazione: il 3 maggio 1934 presso la sede del CONI si ebbero i sorteggi del tabellone: Furono scelte il giorno stesso le 8 teste di serie, per evitare che squadre forti venissero subito eliminate negli ottavi di finale, e le prescelte furono, oltre all’Italia, Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, Argentina (ma solo per blasone: temendo la solita razzia di oriundi, aveva mandato una squadra di semidilettanti), anche Olanda, Germania e Brasile (anche questo in formazione rimaneggiata, per problemi di federazione, che aveva incontrato notevoli difficoltà nel passaggio dal dilettantismo al professionismo). Il tabellone era quindi così composto:

Ottavi, da giocarsi tutti domenica 27 maggio 1934 (le vincenti si affrontano a coppie):
Italia-USA a Firenze (poi trasferita a Roma)
Spagna-Brasile a Genova;
Ungheria-Egitto a Napoli;
Austria-Francia a Torino;
Cecoslovacchia-Romania a Trieste;
Olanda-Svizzera a Milano;
Argentina-Svezia a Bologna;
Germania-Belgio a Roma (poi trasferita a Firenze)

I quarti si sarebbero giocati giovedì 31 maggio, le semifinali domenica 3 giugno, la finalina giovedì 7 giugno e la finalissima la domenica 10. Il pallone ufficiale dei mondiali, chiamato “Federale 102”, era praticamente identico a quello del 1930 ma con un importante miglioramento: avendo le cuciture interne alla sfera, la forma era più sferica ed i colpi di testa meno rischiosi per la fronte dei giocatori.
I commenti dell’epoca furono abbastanza concordi sul pronosticare la Cecoslovacchia facilmente in finale, mentre per la parte alta del tabellone la lotta sarebbe stata molto più dura: l’Austria, l’altra grande favorita, aveva un quarto difficilissimo con l’Ungheria ed una semifinale con – forse – i padroni di casa. Questi ultimi erano considerati (anche dai giornalisti italiani) ottimi outsiders, ma, al pari della Germania, un gradino sotto i maestri del calcio danubiano.

Capitolo 3

Per l’Italia gli ottavi furono una passeggiata: 7-1 (3-0 al primo tempo) ai poveri statunitensi, che con il loro sistema si offrirono come agnelli sacrificali ai padroni di casa: tre gol dal 18’ al 30’ del primo tempo e nella ripresa, dopo il gol del centravanti USA Donelli, altri 4 gol fino all’ultimo, al 90’, di Meazza al termine di una bella azione con finta di Schiavio (autore di una tripletta, l’ultimo suo gol ha l’onore di essere il 100° segnato alle fasi finali dei campionati del Mondo) sul portiere USA.

Diverso, anche se con risultato netto, l’ottavo direttamente collegato a questo, dove una Spagna ben organizzata era già sul 3-0 alla mezz’ora, con i brasiliani (come detto, senza la migliore formazione ed in maglia bianca) deboli tanto per cambiare in difesa, e fermati da uno dei più grandi portieri del periodo e forse di tutti i tempi: Ricardo, “el divino”, Zamora. Nel secondo tempo la Spagna arretra troppo, il Brasile va all’attacco e Leonidas (un ventunenne “negro”, come dicono le cronache dell’epoca che ritroveremo protagonista tra quattro anni) segna il 3-1. Marcherebbe, il Brasile, anche il 3-2 ma l’arbitro annulla per fuori gioco (tra i fischi del pubblico genovese, che tifava per la squadra più spettacolare: certe cose sono delle costanti, nel calcio) e fallisce un calcio di rigore con il centravanti Waldemar (che dopo qualche anno diverrà famoso per essere stato lo scopritore di un certo Pelé) che tira in bocca a Zamora. Lo stesso portiere mette al sicuro il risultato in svariate occasioni e la partita termina 3-1. Il primo quarto di finale sarà Italia Spagna.

A Napoli, l’Egitto riesce nel primo tempo a ribattere all’Ungheria (che non schierò i suoi migliori elementi, Hada e Sarosi), rimontando un doppio svantaggio, ma crolla nella ripresa, prendendo due gol al 54’ ed al 61’, per poi non riuscire più a portare attacchi reali verso i magiari che al quel punto si chiudevano in difesa: 4-2 il risultato finale.
A Torino, invece, l’Austria – favorita del torneo - rischia la debacle (e la prima grande sorpresa ) da parte della Francia: Gli stanchi austriaci (Meisl aveva polemizzato per il fatto che il campionato austriaco era terminato solo una settimana prima) subiscono lo svantaggio dei francesi, pareggiano dopo aver preso tre pali con Sindelar (la star della nazionale, chiamato “carta velina” perché gracile come fisico) ma sono costretti ai supplementari, e solo perché i “bleus” sono estremamente imprecisi nella finalizzazione delle loro veloci azioni d’attacco (alla fine si saranno divorati almeno tre gol): i tifosi francesi arrivati a Torino in treno ed in pullman sono entusiasti e spingono i loro beniamini verso la grande sorpresa. Ma al 5’ del primo tempo supplementare i bianchi vanno in vantaggio con un gol in clamoroso fuorigioco: il pubblico rumoreggia, ma l’arbitro è irremovibile. Il secondo tempo supplementare serve solo all’Austria a ribadire la superiorità con il 3-1 ed alla Francia ad accorciare le distanza con un rigore: 3-2 e galletti transalpini che escono dal mondiale con tanti applausi ma nulla più. Il secondo quarto di finale era quindi deciso: derby danubiano tra Austria ed Ungheria.
Anche la Cecoslovacchia ebbe difficoltà nella sua partita con la Romania: passata in svantaggio al 10’, evitò la capitolazione grazie alle strepitose parate del suo portiere Planicka. Riuscì a ribaltare il risultato nel secondo tempo grazie a due protagonisti del mondiale italiano: Puĉ, che segnerà nella finale, e Nejedly, che risulterà alla fine capocannoniere della manifestazione con 5 reti.

La maggiore sorpresa venne invece dalla Svizzera, che eliminò la più quotata Olanda con il punteggio di 3-2. E pensare che il CT Olandese aveva salutato con gioia la sconfitta in casa con i francesi durante la preparazione dicendo “farà bene, perché ci darà la rabbia e l’umiltà necessaria per far bene in Italia”. Mah… difficilmente le sconfitte fanno morale, secondo noi.

Negli ultimi due ottavi di finale, la Svezia batte l’Argentina che era passata in vantaggio due volte, ma che pagò la poca esperienza soprattutto dei suoi difensori (3 a 2 per gli scandinavi il risultato), mentre la Germania travolse il Belgio nel secondo tempo dopo aver chiuso il primo in svantaggio per 1 a 2. Cinque a due il risultato finale, con tripletta del centravanti Coen negli ultimi venti minuti dell’incontro.

I quarti erano quindi formati:
Italia-Spagna (a Firenze)
Ungheria-Austria (a Bologna)
Cecoslovacchia-Svizzera (a Torino)
Svezia-Germania (a Milano)
Come detto, si giocarono tutti il 31 maggio. Unico caso fino ad ora della storia dei mondiali, le squadre erano tutte di un unico continente.

Il primo quarto, giocato a Firenze, fu anche il più combattuto. L’Italia partiva con i favori del pronostico ed era ben vista anche dalla stessa FIFA (Jules Rimet ebbe a dire che Mussolini era il vero presidente e vincitore di questi mondiali). Nicolò Carosio trasmise raccontò la partita via radio, con altoparlanti montati nelle principali piazze d’Italia e, raccontano, ma non abbiamo trovato riscontri fattuali, anche in Argentina e Brasile. Era nato il primo “evento mediatico sportivo” (ricordiamolo, forte veicolo di consenso per il regime). La Spagna comunque, oltre ad avere uno dei portieri più forti del mondo, non ci stava proprio a fare da vittima predestinata ed anzi passa in vantaggio per prima su mezza papera di Combi, il portierone italiano che, da quasi escluso che era all’inizio, divenne titolare per l’infortunio di Ceresoli ed addirittura capitano in quanto Rosetta, terzino storico del trio juventino che vinceva tutto in quel periodo (“Combi, Rosetta, Caligaris” era all’epoca quello che per chi ha vissuto il periodo dei mondiali ’78 ed ’82 era“Zoff, Gentile, Cabrini”. Curiosamente, però, Caligaris seppur convocato non giocò neanche una partita ai mondiali). L’Italia pareggia ad 1’ dalla fine del primo tempo su gol di Ferrari, lesto a ribattere in rete una corta respinta di Zamora vistosamente bloccato da Schiavio (persino i fascistissimi giornali dell’epoca parlano di “punto che si poteva annullare”). La Spagna gioca bene, ma sia il computo degli angoli finale (16-2 per l’Italia) sia gli elogi sperticati per Zamora, uno dei portieri più talentuosi della storia, danno l’idea di chi abbia attaccato di più. Un palo per parte, diversi rigori reclamati da tutte e due le squadre, e Meazza (su questo fenomeno del calcio, considerato alla stregua di Messi oggi, torneremo in seguito) costretto ad uscire in barella sono indizi di quanto la partita dovesse essere combattuta. Ma dopo 120’ il punteggio rimase 1-1 e si dovette rigiocare il giorno dopo (fu il primo caso nella storia dei mondiali). I commenti davano a questo punto l’Austria – vittoriosa nel suo quarto di finale, come vedremo - in finale perché avrebbe dovuto giocare due giorni dopo con una squadra, qualunque essa fosse, stanchissima.
Il giorno dopo l’Italia cambia solo 4 giocatori, la Spagna nove, tra cui… Zamora. El divino affermerà sempre che non scese in campo per infortunio, ma voci insistenti concordano nel dire che le pressioni italiane sulla Spagna per non farlo giocare furono fortissime. La verità non si saprà mai, probabilmente. Nella ripetizione bastò un gol di testa di Meazza al 12’ per risolvere la partita. Gli spagnoli, che in genere calavano vistosamente alla distanza (successe sia col Brasile sia nella prima partita) non ebbero la forza di controbattere (ma fu annullato loro un gol probabilmente regolare, tanto che l’arbitro svizzero Mercet fu poi radiato dalla sua Federazione), e l’Italia entrò in semifinale.

Come abbiamo detto, il derby Danubiano tra Austria ed Ungheria, giocato a Bologna, vide prevalere i primi per 2-1. In vantaggio per 1-0 già al 7’, e raddoppiato ad inizio secondo tempo, subiscono un gol su rigore al 15’ che fu trasformato dall’italo magiaro Sarosi ed il gioco, già abbastanza cattivo prima, diventa violento, tanto da far dire all’allenatore austriaco Meisl (l’altro “Mago” del metodo assieme a Pozzo) che “Il secondo tempo non è stata una partita, ma una baruffa”. Ci fu l’unica espulsione dell’intera competizione (l’ungherese Markos), i magiari finirono addirittura in 9 per un altro infortunio ed il risultato non cambiò: La prima semifinale sarebbe stata Italia-Austria.

Negli altri due quarti di finale, la Cecoslovacchia riuscì solo a 7 minuti dalla fine a battere la Svizzera (3-2 il risultato), con Planicka sempre migliore dei suoi, mentre la Germania regola la Svezia per 2 a 1 con tutti i gol nel secondo tempo. Semifinale attesa, quella della parte bassa del tabellone.

Capitolo 4

Le due semifinali, Italia-Austria a Milano e Cecoslovacchia-Germania a Roma si giocarono la domenica successiva, 3 giugno 1934.  Erano, tutto sommato, quelle più prevedibili dopo i sorteggi, anche se la presenza della Spagna non avrebbe fatto scandalo.
L’Italia, che avrebbe dovuto essere molto più stanca per aver giocato una partita in più ed aver riposato un giorno in meno, vinse invece 1-0 su gol di Guaita al 21’ dopo un evidente carica sul portiere austriaco da parte di Meazza (questi affermerà che fosse involontaria) e con Sindelar che fu annullato dalle carezze di Monti, l’oriundo Argentino che trasferitosi in Italia cercava quel titolo mondiale che 4 anni prima aveva perso in finale. Messo nel ruolo di centromediano metodista da Pozzo, si occupò del talentuoso attaccante alla sua maniera: l’arbitro svedese lo richiamò più volte, ma non lo cacciò mai. Gli Austriaci ebbero a protestare violentemente anche per due rigori a loro modo di vedere non concessi, ma Meisl, il loro allenatore, mise a tacere subito le polemiche: il gol era frutto di una papera del portiere austriaco, disse, ed i falli fanno parte del gioco: l’Italia aveva meritato di vincere. Gran signore Meisl, ma anche bugiardo… Da notare che per la prima volta Vaccaro, in qualità di presidente FIGC, rilasciò dichiarazioni pubbliche di soddisfazione andando a trovare la squadra direttamente nel ritiro di Roveta (casale sopra Firenze). Si seppe in seguito che oltre ad appropriarsi pubblicamente del successo, Vaccaro fece pressioni, ovviamente tramite la FIFA, sull’arbitro svedese, affermando “Se arbitri bene, farai anche la finale”. Lo svedese, oltretutto fascista convinto, capì benissimo l’antifona. Tale aneddoto è raccontato da Borel II, uno dei convocati, che avrebbe avuto quindi tutto l’interesse a tacerlo.

L’altra semifinale fu meno combattuta: I Ceoslovacchi erano più quotati dei tedeschi, e non delusero le attese: 3-1 con tripletta del capocannoniere Nejedly. La Germania ci provò, riuscì a pareggiare al 15’ del secondo tempo, e rischiò addirittura il vantaggio quando un terzino boemo anticipando Planicka (sempre tra i migliori dei suoi) mandò la palla sulla traversa rischiando l’autorete. Ma alla lunga tra i cross di Puĉ ed i colpi di testa di Nejedly la miglior classe boema uscì fuori. Va detto che nelle “interviste dopo partita” dell’epoca, l’allenatore cecoslovacco si disse felice di incontrare l’Italia in finale. La ritenevano infatti più debole dell’Austria.

La finalina per il 3° e 4° posto, giocata a Napoli, fu vinta agevolmente, più di quanto non dica il punteggio, dalla Germania su una stanca Austria per 3-2 (3-1 il primo tempo), e va ricordato per due curiosi aneddoti: il primo gol, segnato dopo 24”, rimarrà a lungo come il gol più rapido della manifestazione, e le divise delle squadre: avendo entrambe la maglia bianca, per sorteggio l’Austria fu costretta a cambiarla con quelle del… Napoli. Un episodio simile si ebbe nel ’78 quando la Francia indossò la maglia del Kimberley di Mar de la Plata nell’inutile sfida con l’Ungheria.

Ed eccoci alla finalissima del 10 giugno 1934 a Roma: completamente diversa la maniera in cui le due squadre si erano preparate all’”evento”: in ritiro monacale l’Italia, nelle colline fiorentine, dove Pozzo sottoponeva i calciatori ad un regime militaresco, arrivando addirittura a leggere le loro lettere. Borel II racconta che provò a sfuggire chiedendo al CT il permesso di andarsi a fare i capelli, ma il buon Vittorio fece venire un barbiere appositamente in ritiro. L’unico svago, mal visto anche questo da Pozzo, furono interminabili partite a poker, dove Meazza non capiva mai chi fosse il pollo… in quanto era lui! Tanto un genio dentro il rettangolo di gioco, quanto sprovveduto al di fuori di esso. Di tutt’altro tenore la preparazione della Cecoslovacchia a Frascati, dove l’unica lamentela arrivò perché i giocatori non potevano gustare il vino dei Castelli quanto avrebbero voluto.

Le polemiche non mancano: per la finale è designato lo stesso svedese, Eklind, che aveva arbitrato la semifinale Italia-Austria, e sarà l’unico caso del genere. Oltre ai favoritismi arbitrali, ci si lamenta anche della forte presenza di oriundi nelle fila azzurre: Pozzo risponde veementemente che se possono fare il militare in Italia, possono ben giocare in nazionale: cosa vera, in teoria, ma in pratica nessuno di questi ha mai fatto un solo giorno di naia. Orsi, addirittura, fu riformato per scompenso cardiaco, senza che nessuno si chiedesse come fosse possibile giocare a calcio con quella veemenza essendo malato di cuore.

Alle 17.00, comunque, comincia la partita: l’Italia schiera Combi Monzeglio, Allemandi; Ferraris, Monti, Bertolini; Guaita, Meazza, Ferrari, Schiavio, Orsi. La Cecoslovacchia risponde con Plánička, Čtyřoký, Ženíšek; Krčil, Čambal, Košťálek; Puč, Nejedlý, Sobotka, Svoboda, Junek. La partita, seguita da oltre 50.000 persone allo stadio del PNF (l’incasso maggiore rimarrà comunque quello della semifinale di Milano) non è spettacolare, ed anche gli attacchi latitano: troppa è la paura di perdere. Il primo tempo si conclude zero a zero. Nel secondo, la musica non cambia: Nicolò Carosio continua, via radio, a cercare di trascinare gli animi descrivendo concitatamente la partita, secondo lui gli italiani sono costantemente protesi all’attacco, il gol è maturo come una pera spadona, quando al 71’, con voce spenta, dice “Rete”. La Cecoslovacchia è passata in vantaggio. Puč, rientrano da poco dopo essere stato 10’ fuori per una botta in testa, riprende un calcio d’angolo tirato da lui, dribbla Allemandi e batte Combi: 0-1! Il gelo scende nello stadio: solo 19’ per evitare la disfatta. Paradossalmente l’Italia comincia a giocare meglio da allora. Guaita e Schiavio, stanchissimo, si scambiano i ruoli (all’epoca si andava all’ala per riposare, ricordiamo che non erano previste sostituzioni), gli attacchi si fanno più ficcanti, in contropiede la Cecoslovacchia manca il 2-0 con Sobotka che prende il palo, ma dopo 11’ l’Italia pareggia con Orsi: 1-1!
Saranno tempi supplementari. L’incontro non è cattivissimo – sempre escluse le carezze di Monti – ma non è neanche bello: le squadre, dopo due settimane di tensione e partite dure, sono stanche. Ma al 4’ del primo tempo supplementare riecco Schiavio al centro che coglie un assist di Guaita, tira, palo interno, rete: 2-1! Il risultato non cambierà più, e la coppa della Vittoria andrà all’Italia. Eklind, dopo aver salutato col braccio teso Mussolini, festeggerà con gli azzurri: questo gesto, più di ogni altro sospetto, conferma la particolare attenzione data agli arbitri da parte della federazione Italiana. La gioia è grande, ma divisa (oggi sembra impossibile) con la vittoria di Learco Guerra al giro d’Italia (la Gazzetta dello sport farà addirittura il titolo di prima pagina su due righe per celebrare gli eventi). Il Duce comunque, premiò tutto lo staff (tecnico, calciatori, dirigenti) con 25.000 lire a testa. Erano tutti felici, tranne Meazza. Sarebbero a malapena serviti per sanare i debiti di gioco contratti in ritiro.

Al solito, due parole sui protagonisti: Puč, morto ad 81 anni nel 1988, è ancora oggi il miglior marcatore della nazionale Cecoslovacca, il capocannoniere Nejedlý allenò la nazionale del suo paese negli anni ’50 per poi cercare di tornare a vedere l’Italia per i mondiali del 1990, morì però pochi giorni prima della partita con gli azzurri. Sindelar, “cartavelina”, fu l’austriaco più felice in quel 1934: trovò l’amore a Milano con un’infermiera di religione ebraica. Nel 1938, quando i nazisti invasero l’Austria, si rifiutò di giocare per la Germania. Fu trovato morto, nel 1939, ufficialmente per avvelenamento da monossido di carbonio, ma i sospetti che gravavano sul regime di Hitler non sono mai stati dissolti del tutto.

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