Autore Topic: La fine del Mondo: addio a mister Mondonico  (Letto 1242 volte)

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Offline franz_kappa

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La fine del Mondo: addio a mister Mondonico
« : Giovedì 29 Marzo 2018, 09:33:10 »
Apprendo con dispiacere dai mezzi di informazione che è venuto a mancare Emiliano Mondonico.
Aveva 71 anni e da sette anni lottava contro il cancro.

Mi spiace davvero tanto. Era uno dei pochi personaggi dell'italico calcio cui volevo davvero bene. Negli anni Ottanta, quando ho iniziato ad amare il calcio (e all'inizio amavo quel calcio quanto amavo la Lazio di quegli anni, che pure non era proprio esaltante) sono cresciuto con lui.
Inevitabile snocciolare il rosario dei ricordi, dall'avventura dell'atalanta in Coppa delle Coppe alla finale Uefa del torino con l'Ajax con l'iconica sollevazione della sedia.
Lo apprezzavo molto, negli ultimi anni, anche come commentatore sportivo.

Un pensiero di cordoglio alla famiglia e ai suoi cari.
Ti sia lieve la terra, Emiliano.
Buon viaggio, caro Piero.

Offline Jim Bowie

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Re:La fine del Mondo: addio a mister Mondonico
« Risposta #1 : Giovedì 29 Marzo 2018, 14:04:41 »
Un uomo vero che se ne va in silenzio, un uomo garbato ed intenditore di calcio.
RIP Emiliano
Ex En_rui da Shanghai

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"Forza Lazio"
till i die

Sarri uomo di Principi non di Opportunita'

Antiromanista si nasce non ci si diventa, ed io modestamente lo nacqui!

Offline Er Matador

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Re:La fine del Mondo: addio a mister Mondonico
« Risposta #2 : Venerdì 30 Marzo 2018, 16:15:16 »
Notizia che ho accolto con sincero rammarico, anche se del personaggio ho sempre avuto una percezione tendente all’agrodolce.

Era innanzitutto un uomo della Bassa.
Uno che, rimasto senza panchina (e senza ritiro estivo, dopo 34 anni ininterrotti da giocatore e allenatore), si dedicò ad allevamento e agricoltura nelle proprietà di famiglia: come dire che, immediatamente alle spalle del calcio, rimanevano la vita reale e un solido retroterra.
E un tattico, fra i migliori espressi dalla nostra scuola.
Uno che, avanti di decenni in questo, dispensava a ciclo continuo mosse e contromosse in corso d’opera: proseguendo, ma anche aggiornando, una tradizione italianista nella quale la partita si preparava soprattutto in settimana, e gli interventi durante i novanta minuti ricoprivano un’importanza imparagonabile a quella odierna.

Il Mondo l’abbiamo conosciuto con la Cremonese, ed è lui ad aver costruito quell’immagine di simpatia – magari un po’ sempliciotta e perdente, ma autentica – che ancora la circonda.
Come fu lui a riportare in A il sodalizio grigiorosso che, dopo aver tenuto a battesimo il girone unico, non vi aveva più messo piede.
Concedendosi personalmente un debutto nella massima serie a soli 37 anni: non un’ovvietà, considerando la carriera discreta ma nulla più come giocatore e il fatto che la gavetta – comunque maturata fra Giovanili e serie B, sempre all’ombra del Torrazzo – era ancora una cosa seria.

Confermò poi le proprie doti al Como, insieme a originalità e idee nel mettere in campo la squadra.
Ad esempio nelle caratteristiche dei terzini che, contrariamente alle più consolidate abitudini, prevedevano un destro (Tempestilli) fluidificante e presente anche in zona gol e un sinistro (Pasquale Bruno) dedito alla più arcigna delle marcature a uomo.
Oppure nelle mansioni tattiche, spesso intercambiabili nel corso dell’azione, del mediano (il capitano Centi) e del libero (il vice-capitano Albiero, anch’egli dotato di una discreta vocazione offensiva): schema poi riproposto con Fortunato e Fusi in un Toro di qualche anno dopo.
I lariani si proposero in quella stagione come rivelazione del torneo, una provinciale sbarazzina e dal bel gioco che concluse con un’onorevolissima nona posizione, ma dopo aver collezionato un filotto di gare senza sconfitte nelle prime giornate e occupato, sia pure in via provvisoria, un irreale secondo posto.

Ed ecco l’Atalanta, dove fra serie B e Coppa delle Coppe scrisse una di quelle storie che fanno amare questo sport.
Per dire quanta sostanza vi fosse al di là del ruolo di mascotte e della simpatia, basta ricordare un dettaglio tattico nella semifinale d’andata col Malines.
I belgi – gli unici ad aver alzato un trofeo nella prima partecipazione alle Coppe europee – potevano contare su un allenatore emergente, Aad de Mos, e un gioco organizzatissimo cui contribuiva in appoggio anche il libero e capitano Clijsters.
Nella ripresa, sull’1-1 prontamente siglato da Stromberg dopo lo svantaggio iniziale, il tecnico olandese diede ordine ai suoi di giocare sistematicamente sul retropassaggio al portiere Preud’Homme per cercare coi suoi rinvii chilometrici lo spilungone den Boer.
Obiettivo? Presto detto: saltare il centrocampo dove, con le mosse del Mondo, i suoi non vedevano più il pallone.
Fu lì, per inciso, che passò il treno della qualificazione: il 2-1 subito nel finale delineò un ritorno in salita nel quale, dopo l’illusorio vantaggio di “bomber vero” Garlini dal dischetto, i bergamaschi finirono la benzina.

Indimenticabile anche l’esperienza al Torino (quello vero, non la cairese con la minuscola), nell’ultima versione dei granata competitiva ad alto livello: una Coppa (Italia) in faccia a tre rigori contro e una (Uefa) persa dopo una grandiosa prestazione in un’altra finale di ritorno e in un altro Olimpico, quello di Amsterdam.
Casagrande di testa su cross di Lentini (35’), Mussi con un rasoterra da fuori area (72’), Sordo su una prodezza al volo (‘87): i tre legni contro cui andò a sbattere un trionfo strameritato.
L’arbitraggio sollecitò il celebre gesto della sedia: ma ci sarebbe stato da alzare e sventolare direttamente la panchina contro la malasorte e una beffa troppo crudele, anche per la proverbiale sfiga del Toro.

Lasciando da parte l’annata brillante ma singola in riva al Lario e altre esperienze minori, quale fra quelle citate può essere definita la “sua” squadra?
La Cremonese, con quindici anni fra campo e panchina, sembra piuttosto la sua vita.
Comprensiva di uno sfortunatissimo ritorno a distanza di anni, con un gol di Cozzolino allo scadere dei supplementari che, se convalidato, avrebbe tolto al Cittadella la promozione nella serie cadetta.
Una second life in grigiorosso finita male, ma lasciando comunque tracce: ad esempio la promozione a titolare – proprio per i play-off – di un giovane Sirigu, che senza il Mondo sarebbe rimasto chissà ancora per quanto tempo dietro le quinte.
In granata si creò un rapporto indissolubile – a maggior ragione nel ricordo, dopo la catastrofe che ha coinvolto in seguito la società – con l’ambiente e la squadra, nella quale aveva militato anche da calciatore.
Ma un indizio porta altrove: al Toro, pur nel contesto di un’esperienza unica, è difficile ricordare personaggi a lui particolarmente legati al di là dell’aspetto tecnico; se ne trovano invece, e più di uno, a Bergamo.

Daniele Fortunato, innanzitutto: il suo allenatore in campo e poi il suo vice, a conferma di una vera e propria telepatia con le non banali idee tattiche del Mondo.
Sulla verticale formata da lui e da Eligio Nicolini, e presa in blocco dall’indimenticabile L.R. Vicenza di Bruno Giorgi, il tecnico di Rivolta d’Adda costruì il ciclo che avrebbe visto gli orobici protagonisti in Europa.
Oscar Magoni, quello a cui più direttamente si riferiva quando distingueva fra giocatori da Atalanta e uomini da Atalanta.
Per un altro allenatore quel mediano sgraziato, ma dotato di buona duttilità e sagacia tattica, sarebbe stato solo un utile uomo di fatica in organico.
Lui intuì, dietro quelle fattezze spigolose e quella famiglia di sportivi (che aveva dato alla “valanga rosa” Lara e Paoletta, olimpionica a Sarajevo), un leader silenzioso e un riferimento per lo spogliatoio.
Federico Pisani, componente della “banda Prandelli” come veniva detta la spettacolare e assai prolifica (Morfeo, Pavan, Locatelli, Tacchinardi, Viali, Foglio) Primavera dei nati a metà anni Settanta.
Una storia spezzata sul nascere, e alla vigilia dell’esordio nel girone di qualificazione agli Europei con l’Under 21, da un maledetto incidente automobilistico.
Nella partita successiva alla tragedia, Mondonico convocò in prima squadra Mario Morfeo, fratello del più noto Domenico e che difficilmente avrebbe fatto parte del gruppo per motivi tecnici.
Il gesto – come spiegato dallo stesso allenatore – valeva come riconoscimento a una famiglia particolarmente colpita da quel lutto e al giocatore che più aveva legato col “Griso”: forse perché avevano in comune le origini centro-italiche e il percorso di chi, per approdare a Bergamo, si era dovuto allontanare parecchio da casa.
E serviva per uscire dall’incantesimo – lo chiamò così – che aveva attanagliato quel gruppo di ragazzi cresciuti insieme.
Lo sfortunato giocatore garfagnino – quasi compaesano di Tardelli – non è purtroppo l’unico ad essersene andato troppo presto: ma raramente si è vista una simile partecipazione umana da parte di chi, in teoria, intratteneva con lui solo un rapporto di natura professionale.

E l’agrodolce, di cui si diceva in apertura?
Il Mondo era un allenatore di rara abilità nel chiudere gli spazi e soffocare la manovra avversaria.
Come dimostrò, per citare un solo episodio, quando tolse la promozione in A alla Salernitana di Delio Rossi costringendo un’autentica macchina da gol a trovare la porta solo su una punizione di Strada.
La frase pronunciata da Rui Costa all’indirizzo di Bonacina (“non mi lascia giocare”) durante una finale di Coppa Italia persa contro i viola è forse il manifesto del suo modo di intendere il calcio.
Un modo fatto di tradizione italianista sapientemente reinterpretata, di marcature implacabili, di continui accorgimenti tattici: ma anche, in alcuni casi, di vero e proprio ostruzionismo che andava al di là del catenaccio e, francamente, della sportività.
Difficile dimenticare, per dirne una, l’alieno seviziato da Rustico in un lontano Atalanta-Lazio e nella più assoluta impunità arbitrale.
Che fece inorridire persino un Dagoberto Zenga stranamente ecumenico nei confronti delle formazioni romane, e diede il “la” a un quadriennio da incubo coi direttori di gara.
Un ricordo meno piacevole viene anche da un certo vittimismo che faceva capolino nei suoi discorsi e atteggiamenti, e che sembrava ovvio ricondurre a un tentativo di condizionamento nei confronti del fischietto di turno.
Il rapporto con la tifoseria della curva atalantina, poi, ha lasciato ricordi mitologici: ma anche un’eredità pesante ai suoi successori, spesso in difficoltà se non seguivano il suo esempio nel tessere una trama di cene e di considerazione nei confronti del mondo ultrà.
Aver legittimato quella componente, e proprio nel momento in cui eccedeva sempre più pericolosamente il proprio ruolo, implica una pesante responsabilità.

De hoc satis, data la circostanza: mi è sembrato giusto almeno un accenno a certi aspetti, anche per non scadere in una sterile agiografia.
Senza perdere di vista il fatto che stiamo comunque ricordando una figura tecnica e umana di grande spessore.
A maggior ragione se paragonata al viavai di mestieranti e improvvisatori che ha preso il posto della nostra scuola tecnica.
Che la terra gli sia lieve.

Offline franz_kappa

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Re:La fine del Mondo: addio a mister Mondonico
« Risposta #3 : Venerdì 30 Marzo 2018, 17:21:38 »
Ti aspettavo, Matador.
Grazie di cuore, sempre speciali questi tuoi interventi.
Buon viaggio, caro Piero.